22 maggio 2015

Niente è così pericoloso quanto l'essere troppo moderni: si corre il rischio di diventare improvvisamente fuori moda (cit.)


Notizia di questi giorni è la certificazione di come i phablet (dispositivi cellulari dotati di un display di dimensioni importanti) stiano rosicchiando numeri elevati di market share a smart-phone di piccole e medie dimensioni ed ai tablet di grandi dimensioni.

Avevo analizzato -in parte- la questione già tempo fa, ma l'avevo affrontata principalmente in relazione all'esplosione del fenomeno wearable: mi ero concentrato sulla soluzione che gli stessi produttori stanno offrendo ai consumatori -rispetto a questo fenomeno di ingrandimento del polliciaggio degli schermi- con la proposta di un ulteriore dispositivo al nostro polso.
Ma non mi ero espresso più di tanto sulle conseguenze lato sistemi operativi di questo shift dimensionale.

Oggi, perciò, voglio investigare su come tale passaggio (dal display piccolo a quello grande) abbia, nel corso del tempo, portato a ripensare diverse funzionalità negli OS per dispositivi mobili, sia lato UI (le interfacce utente) sia quello UX (nelle modalità di interazione stessa con i device).

E nel farlo ne approfitterò per analizzare i player che oggi dominano il mercato ed anche quelli che stanno cercando di ritagliarsi una propria fetta di utenza.


Ancora me li ricordo i primi telefonini con i quali mi sono avvicinato al mondo della telefonia mobile: per anni sono diventati sempre più piccini (mantenendo, però, grosso modo fissa la dimensione del display), fino ad ingrandirsi nuovamente (abbandonando tasti e riducendo gli spazi inutilizzati)!


L'evolversi da semplice dispositivo per ricevere/effettuare chiamate e mandare SMS fino a centro della nostra vita digitale ha portato tantissime nuove funzioni nel nostro telefono cellulare.
Ma, soprattutto, il passaggio da strumento per l'input di contenuti ben specifici (fondamentalmente brevi messaggi di testo o vocali) a device per consumare contenuti multimediali ha necessitato l'ingrandimento della componente di output visivo: il display.

Questa trasformazione è durata diversi anni e sta ancora avvenendo. Quello che però è andato di pari passo con essa è stato il ripensamento nello sviluppo del software da parte di qualsiasi developers (sia quelli indipendenti, sia nelle grandi software house).

E ciò non soltanto lato apps.

L'esplosione di Internet e l'arrivo di device in grado di eseguire ogni compito stanno spingendo tantissimi utenti ad accedere al web (e per molti finanche dalla prima volta) sempre più in mobilità (sia di giorno che di notte), allontanandoli dal personal computer.


Il processo perciò è chiaro: mobile first (e, a volte, addirittura mobile only).


In molti mercati l'unione di scarsa disponibilità economica ed utilizzo di un solo dispositivo per gestire tutta la vita digitale (ma questo anche in aree più evolute) sta invogliando tantissime persone alla scelta di un unico device (piuttosto che PC + tablet + smart/feature-phone) che in qualche modo possa essere il miglior compromesso accettabile.

Ed in questo contesto i phablet sono la scelta più ovvia.

Si sommi a ciò il fatto che quegli stessi mercati, i BRICS, siano oggi (e ancor più nei prossimi anni) punto di attenzione per tutti i produttori vista l'esplosione che stanno vivendo (comprendendo il 40% della popolazione mondiale), ecco giungerci alla chiusura del cerchio.


Tra qualche anno probabilmente il focus si sposterà principalmente sui wearable (vedi anche qui), ma per ora il design delle interfacce si sta adattando a due aspetti: per prima cosa agli schermi sempre più grandi nei dispositivi mobili, ma soprattutto a rendere l'accesso a servizi e contenuti il più rapido possibile.

Per approfondire:



      Ricapitolando brevemente:
      1. convergenza di tutta la nostra vita digitale in un unico prodotto (il telefono cellulare)
      2. esplosione di internet e dei servizi web (ubiquità e mobile first)
      3. consumo in mobilità dei contenuti (display sempre più grandi)
      4. espansione dei mercati in via di sviluppo (un unico device che permetta di fare tutto)
      Questo è stato il cambiamento negli ultimi 10 anni e continuerà ad esserlo in quelli a venire. Per questi stessi motivi aziende come Apple, da sempre contrarie ai display enormi, hanno ripensato le proprie strategie proponendo -alla fine- anche loro dei (o concentrandosi anche sui) phablets.

      Detto ciò, è secondo me interessante andare ad analizzare come gli OS mobili abbiano seguito (e guidato) questa evoluzione nel tempo, venendo incontro alle (o generando) nuove esigenze ed adattandosi ai (o creando) nuovi formati di dispositivi mobili.


      Nota: i seguenti paragrafi sono ordinati con ordine decrescente in base alla diffusione di ogni sistema operativo e relativa espansione dell'ecosistema a livello mondiale (quindi dal più adottato al meno diffuso).


      Android: dominio assoluto



      Il sistema operativo comprato da Google nel 2005 di cui, successivamente, si è continuato lo sviluppo, oggi domina nettamente il mercato: ogni giorno nuovi dispositivi con preinstallato tale OS vengono presentati ed immessi sul mercato, ed ormai ne esistono di ogni forma, variante e configurazione.


      Non è stato sempre così ovviamente.

      Il sistema del robottino verde è composto da diversi layer che separano nettamente le componenti: c'è uno strato rilasciato con licenza open-source e sorgenti liberi (l'AOSP) e due strati aggiuntivi che sono chiusi e strettamente controllati da BigG, per i quali è richiesto un accordo commerciale tra gli OEM e Google stessa.

      In realtà uno di questi due strati aggiuntivi è legato all'altro (i Play Services). Infatti esso fa parte del pacchetto (le Google Apps) che i vari produttori devono installare -in blocco- nei propri firmware se vogliono avere il Google Play Store sui proprio device.
      I Play Services estendono le funzionalità dell'OS e senza di essi Android rimane molto "castrato".

      Questa è la strategia studiata da Google per rendere da una parte più modulare l'OS, e quindi combattere la frammentazione che da sempre è piaga nell'ecosistema. Ma anche il proliferarsi di varianti con esperienza non-Google del sistema operativo stesso.
      Ed effettivamente di tali varianti ce ne sono tantissime, più o meno famose o diffuse, che potenzialmente potrebbero portare molti benefici se seguite correttamente in modo da riportare nell'AOSP patch e modifiche.
      In realtà, però, esse non sono particolarmente seguite da chi va a forkare l'OS. Oppure tali fork restano chiusi creando diramazioni a sé stanti che non servono a nessuno...


      Aldilà delle questioni tecniche, una cosa fondamentale che, nel corso degli ormai lunghi 7 anni (commerciali) di vita, ha sempre contraddistinto Android è stata la sua capacità di rimodellarsi e di guidare i cambiamenti prima descritti.

      Ogni versione dell'OS ha infatti portato novità strutturali e funzionali, e nel corso del tempo la UI e la UX sono state rivisitate profondamente.

      L'anno scorso, durante il Google I/O 2014, Google anticipava molte delle features che avrebbero accompagnato la futura incarnazione "L" del robottino. Versione che nei mesi successivi sarebbe stata lanciata con il nome Lollipop.

      Android 5.0 ha rivoluzionato completamente la UI dell'OS, portando una marea di concetti legati a nuove idee di interazione con l'interfaccia. Il tutto realizzato sotto i dettami del Material Design.

      Per approfondire:



      Si è parlato di frammentazione, ma un'altra peculiarità di Android è da sempre stata la personalizzazione. Ne avevo discusso già circa un anno fa, ad ogni modo il successo di questo sistema operativo è innegabilmente dovuto alla capacità di essere modellato a piacere da parte degli utenti, ma soprattutto da parte degli OEM.

      Quest'ultimi infatti possono realizzare interfacce e servizi personalizzati da inserire sopra la base comune dell'OS in modo da differenziarsi e crearsi i propri estimatori ed utenti. Con altri sistemi operativi questa malleabilità non c'è, ed i produttori di terze parti fanno fatica ad emergere agli occhi dei consumatori potendo far leva solo sulle schede tecniche (ormai sempre più appiattite e livellate tra loro).

      Questa possibilità di personalizzazione così profonda è da sempre stata un'arma a doppio taglio, perché da una parte ha dato la possibilità di avere dispositivi per ogni esigenza e per ogni gusto (non siamo tutti uguali), ma dall'altra ha rallentato l'avanzamento stesso dell'ecosistema.
      Ogni modifica, aggiornamento dell'OS, patch o bug fix rilasciati da BigG non sono mai arrivati su tutti i prodotti in commercio (e non parlo solo di device il cui supporto fosse già scaduto).


      Ciò ha comportato e comporta tuttora ritardi nell'arrivo di funzioni e disallineamento generale nelle aspettative degli utenti sul funzionamento delle app e coerenza delle interfacce.


      Perché tutta questa premessa?
      Proprio perché fino all'arrivo del Material Design, Android non è mai stato in grado di scalare correttamente in base alla dimensione del display. Vero è che le applicazioni sono in grado di adattarsi alla grandezza del dispositivo in uso, spesso senza cambiare una virgola a livello di codice (altra grande peculiarità di questo OS che ne ha permesso la diffusione nelle tantissime varianti di diagonale e risoluzione dei display).

      Ma adattarsi ad uno schermo di dimensioni differenti non è sinonimo di sfruttarlo correttamente.
      Se non fosse stato per il lavoro di alcuni produttori di terze parti, come ad esempio Samsung con la sua serie Note (ma anche altri), probabilmente i phablets avrebbero faticato molto di più nella loro diffusione.


      Ad ogni modo, la UI di Android è suddivisa in aree ben precise:
      1. status bar, in alto con gli indicatori di stato e le icone delle notifiche ricevute, e con la possibilità di mostrare una tendina con le impostazioni rapide ed il testo delle notifiche perse
      2. area principale, al centro con la home o l'applicazione in uso
      3. navigation bar, in basso con i pulsanti per interagire con alcune funzioni dell'interfaccia

      Le due barre possono essere nascoste (ad esempio nelle applicazioni a tutto schermo) o se presenti tasti fisici al di fuori dello schermo. Nel corso del tempo Google ha spinto per far eliminare più tasti fisici possibili dai terminali Android, cosa che non è stata recepita da tutti i produttori.

      Ma ciò è dovuto al fatto che le funzioni legate ai tasti presenti sulla barra di navigazione sono mutate negli anni: si è passati dal tasto menu a quello dello "pseudo multi-tasking"; è stato aggiunto Google Now con lo swipe del dito a partire dal comando home; è stata eliminata la schermata delle applicazioni recentemente avviate e sostituita con una panoramica delle operazioni eseguite; o anche la sostituzione del tasto indietro con quello per la chiusura della tastiera se quest'ultima è attiva a video.

      E nulla vieta che prossimamente nuove funzioni o comandi alternativi possano essere aggiunti o rimossi dalla barra.



      Google è sempre stata incapace di adattare correttamente e completamente la propria interfaccia al variare delle dimensioni degli schermi: nel passaggio dalla versione 1.x alla 2.x si era rimasti ancorati alle stesse risoluzioni non HD.

      E visto che i produttori stavano cominciando a sperimentare terminali con display da 7 o 8", ed il framework di Android non era assolutamente in grado di sfruttare tutto quello spazio a disposizione, Google sconsigliò pubblicamente la diffusione di quei device.

      Il ramo 3.x portò un nuovo tema, Holo, ma era riservato ai soli tablet con tantissime novità che cercavano di uniformare il mondo dei grandi schermi a quello degli smart-phone. Ma il progetto non fu un successo, ed il codice sorgente dell'OS non fu nemmeno mai rilasciato..!

      Solo con le versioni 4.x si cambiò direzione: BigG stessa era confidente del lavoro svolto e rilasciò il suo primo tablet da 7" che poteva mostrare fieramente una UI finalmente studiata per device grandi, ed avvicinare gli sviluppatori al nuovo formato.

      Ma non furono tutte rose e fiori...


      Si era cominciato a sperimentare con gli hamburger menu e relativi navigation drawer, con i fragment, con le azioni principali delle apps poste sulla barra del titolo, e così via. Ma il tutto era caotico: non tutte le apps seguivano gli stessi paradigmi, e non tutti erano convinti del funzionamento di molte delle componenti proposte.

      Google stessa.

      Android è sempre stato una accozzaglia di esperimenti grafici più o meno indirizzati da linee guida vaghe, e senza alcun controllo centralizzato sulla qualità delle applicazioni disponibili.

      Se questo ha permesso una proliferazione enorme di software, ha anche creato la nomea di OS poco coerente, disomogeneo e ne ha aumentato sempre più la percezione di frammentazione (non solo a livello di API, ma anche di UI e UX).



      Con l'arrivo del Material Design, Google ha voluto dare una risposta forte e ferma a tali problemi.

      Le stesse linee guida, questa volta ben delineate ed abbastanza rigorose, permettono di creare layout che siano fruibili su dimensioni differenti di schermi. Questo perché lo stile non è stato studiato esclusivamente per dispositivi mobili (o anche solo touch): qualsiasi interfaccia di qualsiasi applicazione, anche al di fuori di Android, può trarre benefici dalla sua adozione!

      E gli sviluppatori, questa volta, la hanno ben recepita (e non necessariamente solo nell'ecosistema di Google): pian pianino tantissime app ed anche le UI personalizzate dei vari OEM stanno introducendo i concetti legati al Material Design.


      Android ha ora a disposizione tantissimi produttori, tantissimi prodotti e concetti validi di UI che permettono di creare un collante tra le varie parti fortemente controllate dall'alto da Google.

      Il sistema partiva con concetti legati al mondo tradizionale dei computer (barra di stato, tasti di controllo anche fisici, menu secondari, pannello per le attività recenti). Ad esso è comunque tutt'oggi molto legato, ma con il passare del tempo ha trovato la sua identità (Google Now e comandi vocali, panoramica attività, espansione nel mondo dell'IoT, dell'intrattenimento domestico e del car-infotainment, ed il Material Design).

      Oggi è il sistema operativo più diffuso per quei dispositivi che sono i più ricercati ed acquistati nel mondo.


      iOS: riprogrammare il mondo in mobilità



      Il sistema operativo di Apple, spuntato fuori dal "nulla" nel 2007, ha segnato un cambiamento profondo nel mondo della telefonia mobile dapprima, e di tutto il mondo digitale poi.

      Il bello è che analizzando a posteriori quella che è stata l'evoluzione di questo OS, si può notare come ci siano concetti talmente forti alla base che si potrebbe quasi pensare che di evoluzione in realtà non ce ne sia stata alcuna nel corso del tempo.

      iOS è il secondo sistema operativo più diffuso al mondo. E se si somma la percentuale di utilizzatori di questo OS con quella degli utilizzatori di Android si va a coprire la quasi totalità degli utenti di dispositivi mobili al mondo.

      Stiamo parlando di dati che si ripetono da anni, il che fa capire come gli altri player facciano davvero fatica a ritagliarsi anche solo una piccola nicchia di utenza, ed in molti casi addirittura a rimanere a galla.


      Il merito di Apple è stato sicuramente quello di avvicinare alcuni concetti e strumenti -non necessariamente innovativi- alle masse (e successivamente quelle stesse masse ad altri nuovi concetti), rendendoli cool e di facile utilizzo.
      In tal modo, tutto il mondo di produttori e sviluppatori che ruotava -e ruota tuttora- attorno a quegli stessi strumenti ha trovato la strada per avvicinarsi al grande pubblico, spostando il focus da altri sistemi (ad esempio quello desktop) al mobile.


      E come ha fatto Apple ad avvicinare concetti complicati per molti agli stessi papabili utenti?
      Associando singole funzionalità ad icone.

      Ogni funzione doveva essere rappresentata da una icona, una ulteriore semplificazione di quanto già possibile sui PC o su altri sistemi operativi per dispositivi mobili, ma troppo complicati per tante persone.

      Era nato il concetto di app.
      Non che le applicazioni non esistessero su altre piattaforme mobili: quello che non c'era era l'intuitività nel loro utilizzo. L'app racchiudeva ora in sé scopo e funzione.

      Ma la cosa che più di tutte colpì e avvicinò l'interesse generale fu la semplicità del sistema. L'interfaccia era in qualche modo rivoluzionaria rispetto a quanto esistente: controllata solamente con le nostre dita senza la necessità di alcun tasto fisico. L'unico bottone presente, home (in futuro ribattezzato TouchID), permetteva di tornare alla schermata iniziale.
      Nessun tasto inutilizzato, nessuno spazio sprecato.


      Le app di terze parti arrivarono solo un anno più tardi, ma da allora la crescita non si è più fermata. Oggi probabilmente ci sono anche troppe applicazioni, ma la presenza delle stesse garantisce la sopravvivenza e la diffusione di un sistema operativo rispetto ad un altro.


      Per ben 6 versioni dell'OS, dal ramo 1.x al 6.x, Apple ha concentrato tutti gli sviluppi principalmente sulla creazione delle funzionalità "base" della propria piattaforma. Quando uscì il primo iPhone, infatti, mancavano davvero tante cose: non c'erano gli MMS ed il copia e incolla di testi, o addirittura non era possibile cambiare lo sfondo o gestire più applicazioni in contemporanea.

      Per questo motivo fino ad iOS 7 di modifiche strutturali non ne sono state fatte. Con le ultime versioni alcune novità stavano cominciando ad arrivare (Siri e altri servizi di Apple), ma è solo con l'arrivo della settima release che c'è stato un passaggio generazionale: addio scheumorfismo e benvenuto flat design.


      Apple è l'unica azienda al mondo ad installare sui propri dispositivi iOS, non concedendo la licenza a nessun altro produttore. Ed essendo quindi lei a realizzare sia l'hardware che il software è sempre stata in grado, a differenza di Google con Android, di controllare ogni minimo dettaglio nella evoluzione del suo sistema operativo.
      Questo ha inciso tantissimo sia lato software che lato hardware.

      Da una parte, l'azienda ha immesso sul mercato dispositivi con schermi di dimensioni differenti solo quando si è sentita sicura di aver ottimizzato il lato software a dovere, e dall'altra parte ha aggiunto funzionalità sull'OS solo quando è riuscita a perfezionare la presenza di determinati sensori lato hardware.

      Ciò le ha permesso di essere la prima a commercializzare i tablet di nuova generazione (con l'iPad) e poi di allargare la line-up con un modello più piccolo (il mini) date le richieste del mercato.


      Lo stesso è avvenuto con lo smart-phone: ha dapprima puntato al miglioramento della tecnologia utilizzata nel display per 5 generazioni, e poi è passata a modificarne l'aspect ratio (da 4:3 a 16:9), ed infine a seguire i trend di mercato (display più grandi e phablets) con gli ultimi due modelli.



      La piattaforma creata da Apple può essere considerata nel complesso come meno ottimizzata per il mondo phablet rispetto a quella di Google. Per due semplici motivi: il primo è che essa è nata per una determinata dimensione del display (3.5") e la seconda perché -di base- non c'è alcun vantaggio nella presenza di uno schermo più grande. Una applicazione, infatti, deve essere studiata appositamente per andare a sfruttare tutto lo spazio a disposizione.

      Ma soprattutto, UI e UX di iOS sono nate con il primo iPhone e non si sono mosse così tanto da lì: i concetti alla base sono rimasti praticamente immutati nel corso del tempo, come il comando per tornare indietro in alto a sinistra, o l'azione principale in alto a destra.
      Fatto positivo è la possibile suddivisione in tab (con relativo selettore posizionato nella parte bassa della UI) del contenuto di una applicazione, anche se non tutte ne fanno uso.


      Apple sta, però, lentamente introducendo nuove modalità di interazione a gesti. E, come detto, controllando al 100% l'evoluzione della piattaforma, può decidere quando rilasciarle effettivamente: sull'iPad ad esempio è possibile chiudere le applicazioni facendo scorrere, stringendo a pugno, 4 dita di una mano, oppure passare tra le app in background facendo scorrere sempre le 4 dita in simultanea verso sx o verso dx, oppure aprire il multi-tasking scorrendole verso l'alto.

      Anche sullo smart-phone è possibile interagire con la UI a swipe: facendo uno swipe dal bordo sinistro verso il centro con un dito si torna alla schermata precedente; e all'interno delle app che lo implementano, facendo uno swipe verso sx o verso dx su ad esempio un elemento di una lista è possibile visualizzare azioni secondarie ad esso associate (elimina, seleziona, sposta, e così via...).



      iOS è sempre stato ricco di metodi di interazione (multi-touch), ma è solo dalle ultime versioni dell'OS che ne stanno arrivando di nuovi che permettono di interagire con più facilità con gli schermi più grandi (fino a poco tempo fa inesistenti nell'ecosistema).

      Ad esempio per favorire l'utilizzo dei nuovi dispositivi (che hanno display da 4.7" e 5.5") è stata introdotta la funzionalità di Reachability, cioè di riduzione della UI, al gentle tap sul TouchID: in questo modo sarà possibile raggiungere più agilmente i tasti indietro ed azione principale, nonché raggiungere senza il rischio di stiramenti del pollice il centro notifiche.



      Insomma, Apple continua per la sua strada, andando ad impreziosire il proprio sistema operativo, controllando con rigore dall'alto ogni nuova mossa e centellinando le evoluzioni della piattaforma in base alle nuove necessità.

      Android ed iOS sono due realtà decisamente mature e con posizioni ben salde nel mercato; nascono da radici comuni (prendono tanto -tanto- spunto dai sistemi operativi tradizionali) e continuano ad evolvere in direzioni così simili da essere quasi intercambiabili tra loro.


      Windows: eterno terzo incomodo



      Microsoft ha un problema.
      Il mondo consumer sta lentamente virando dal vecchio paradigma del personal computer, a quello dell'ubiquità e dell'uso in mobilità di servizi cloud e consumo dei contenuti.

      Windows è il sistema operativo per PC più diffuso al mondo, ma lato smart-phone, tablet o qualsiasi altro dispositivo mobile le percentuali di share sono irrisorie.

      Consapevole del problema, nel 2010 l'azienda di Redmond riprese lo sviluppo della propria piattaforma per device mobili (il vetusto Windows Mobile), riprogettandola da zero: nasceva Windows Phone 7.

      A differenza dei competitor più forti sul mercato (iOS ed Android), Microsoft non partì da concetti strettamente legati al mondo desktop, ma cercò di creare un'esperienza utente nuova, fresca e che successivamente sarebbe potuta essere in qualche modo introdotta anche nel "vecchio" mondo dei PC.

      Il risultato fu un misto di scelte azzeccate e scelte pessime: Metro.



      L'interfaccia era fortemente tipografica con tasselli colorati nella schermata iniziale, e con grandi intestazioni di forte impatto visivo all'interno dei menu e nelle applicazioni.
      Un menu secondario a comparsa dal basso (opzionale in base all'applicazione in uso) ed il doppio scorrimento in orizzontale e verticale per muoversi all'interno delle sezioni in cui un'app era suddivisa rappresentavano le possibili iterazioni con la UI.

      Se la UI aveva, quindi, concetti differenti dal mondo dei computer, l'interazione con il sistema rimaneva in qualche modo ancorata ad essi per la presenza di tre tasti fisici, indietro-home-cerca, necessari per l'utilizzo dell'OS.

      Gli stessi elementi grafici sono stati più volte ritoccati con il passare del tempo: ad esempio è stata aggiunta la tendina delle notifiche ed impostazioni rapide dall'alto, oppure è stata data la possibilità di avere tasti virtuali a schermo piuttosto che fisici ed esterni ad esso, e così via.


      Dalla versione 8 ed 8.1, con l'arrivo anche sul PC di tanti concetti presentati dapprima in campo mobile, cominciava ad essere chiara la direzione intrapresa da Microsoft: unificare l'esperienza dei due mondi, se non altro lato UI e UX.
      Ciò era anche facilitato dalle scelte grafiche fatte che permettevano di scalare abbastanza agilmente tutta l'interfaccia indipendentemente dalla dimensione dello schermo.



      Uno dei problemi più grandi di cui Windows Phone soffriva era il disinteresse da parte degli sviluppatori: Android ed iOS catturavano l'attenzione del pubblico, e senza utenti i developers generalmente sono poco interessati ad investire tempo e denaro su di una nuova piattaforma. Ma senza apps, pochi utenti sono interessati ad iniziare ad utilizzare un nuovo ecosistema.

      Un circolo vizioso da interrompere: una bella gatta da pelare.


      Nel frattempo a Redmond sono cambiate diverse cose, molte le ho analizzate in miei precedenti articoli, ma sostanzialmente al cambio del CEO (ora Satya Nadella) è corrisposto un cambio di immagine: Microsoft sembrerebbe non essere più software closed e prodotti per l'ufficio e la casa, ma l'attenzione è stata spostata sul cloud e sui servizi.

      Ecco che sono cominciate a spuntare tantissime applicazioni per sistemi operativi concorrenti che permettono di accedere più facilmente ai servizi Microsoft (come Bing).
      E, grande beffa, queste stesse applicazioni sono spesso realizzate con miglior cura su piattaforme competitor piuttosto che per Windows Phone stesso: è il caso di Skype, la suite Office, OneNote e OneDrive, e così via...

      Microsoft ha inoltre iniziato a intraprendere acquisizioni mirate, come quella di Sunrise, per migliorare sensibilmente la qualità dei propri servizi erogati tramite il cloud. O per indagare in nuove aree, come Minecraft per i futuri HoloLens.


      Per completare l'opera di rebrand, a questo punto c'era bisogno di due cose: attirare utenti sul proprio ecosistema ed unificare il proprio portfolio di prodotti sotto un'unica identità.



      Lato UI e UX si era già cominciato ad unificare, ma occorreva qualche passo in più. Le applicazioni (e quindi l'accesso a servizi e contenuti) dovevano essere identiche indipendentemente dal device utilizzato per fruirne. Anche lato API con riuso del codice.
      E bisognava trovare un modo per attirare gli sviluppatori così da ridurre il gap con le altre piattaforme sulle apps di terze parti.

      Windows 10 sarà il culmine del lavoro svolto proprio per cercare una soluzione alle due problematiche: una famiglia di prodotti basata su una sola piattaforma con un solo store per le applicazioni.


      Tralasciando il fatto che Microsoft continuerà a guadagnare dalla vendita del software (nonostante i classici "specchietti per le allodole" di versioni free, passaggio a servizi, e quant'altro), è interessante cercare di capire come si è tentato e si tenterà di convincere i developers.

      Durante la conferenza Build 2015 (di cui ho ampiamente già discusso) sono stati presentati due Project -ormai fa figo chiamarli tutti così, n.d.r.- dedicati specificatamente al porting su Windows di applicazioni scritte rispettivamente per Android ed iOS (a partire proprio dai codici sorgenti Java e Objective-C).

      In realtà i processi di Project Astoria (Adroid) e Project Islandwood (iOS) sono completamente differenti. In questo articolo (in inglese) sono spiegati in modo completo e dettagliato, ma fondamentalmente per quanto riguarda il secondo si è data la possibilità di scrivere apps native per Windows direttamente in Objective-C: il risultato finale sarà una applicazione identica in tutto e per tutto ad un'altra scritta in C# che potrà accedere a tutte le API messe a disposizione dalla piattaforma e quant'altro. Quindi non si parla di un effettivo porting 1:1, ma lo sviluppatore dovrà implementare da zero la propria applicazione per l'OS.

      Per quanto riguarda Astoria, invece, sono state rimappate a livello di sistema operativo molte delle API presenti in Android in modo che lo stesso codice sviluppato per ottenere una app per il robottino verde possa essere utilizzato su Windows 10. In questo caso, quindi, non sarà possibile accedere alle nuove API offerte dall'OS, ad eccezione di qualche funzionalità come l'accesso alle Live Tiles (e sarà compito dello sviluppatore integrarle).

      Si può ben capire, perciò, che non si parla di lavoro nullo per i developers. Lavoro che prevede comunque dei limiti. E per questo motivo in tanti non sono ancora interessanti all'invito.

      La stessa piattaforma, poi, non è ancora così attraente per i produttori, e Microsoft dovrà darsi davvero da fare per recuperare il tanto terreno perso negli ultimi anni soprattutto in campo mobile.



      Uno dei problemi più grandi del porting di applicazioni scritte per sistemi operativi differenti (di cui ha sofferto nei primi anni anche Android) è che difficilmente gli sviluppatori si occuperanno di adattare tutti i concetti di interfaccia ai dettami della nuova piattaforma.

      Come detto, Metro è una UI che differisce sotto molti punti rispetto ad iOS ed Android. Inoltre, ve lo avevo accennato, l'interfaccia studiata da Microsoft non ha mai convinto al 100%.

      Per questi motivi a Redmond sono giunti alla conclusione che molti concetti introdotti 5 anni or sono su Windows Phone non erano azzeccati. Uno su tutti -ed io ne sono sempre stato convinto- le gigantesche indentazioni spreca-spazio. Anche la navigazione in orizzontale all'interno delle app ha convinto poco.


      Con Windows 10 Mobile (sì, non è un errore, per la futura versione si tornerà alla nomenclatura del passato) tantissimi concetti di UI e UX spariranno e saranno sostituiti da concetti già in voga negli OS concorrenti: hamburger menu, azioni principali sulla barra del titolo (ora colorata), pannelli laterali, navigazione verticale, sfondi chiari e font meno imponenti.
      Le Tiles rimarranno anche se sembrano trasformarsi sempre più in simil-widgets.

      Qui e qui due preview delle build ancora in fase di sviluppo.


      Microsoft sta abbandonando l'unicità per uniformarsi ai sistemi più diffusi, cercando di giocarsi l'ultima carta possibile per attirare gli utenti.
      Sarà la scelta giusta? Solo il tempo potrà dircelo.


      BlackBerry: quel business che non c'è più



      A Waterloo (Ontario) i problemi sono ben altri: gli utenti c'erano ma oggi non ci sono più.

      BlackBerry (ex RIM) è un nome importante nel mondo mobile, soprattutto se si considera il grande parco brevetti detenuto dall'azienda canadese.
      Ma oggi essa occupa una percentuale prossima all'1% del mercato.


      Nel corso dell'ultimo decennio sono stati affrontati diversi cambiamenti, non solo strutturali (cambio di due CEO, cambio della denominazione aziendale, etc...), ma anche lato offerta.
      RIM fu la prima a portare le email sui cellulari, e per anni si è occupata di soluzioni aziendali con i sui servizi BES e BPS.

      A metà dello scorso decennio si provò ad attirare il mercato consumer, ma l'azienda arrivò tardi, con un OS complicato da utilizzare per le masse, con soluzioni "forzate" per il crescente mondo touch e sicuramente poco intuitive.
      Per questo motivo dopo qualche anno, era il 2010, fu acquisito QNX un sistema operativo Unix-like studiato principalmente per dispositivi embedded.


      Nel giro di pochi mesi RIM presentò il suo primo tablet basato proprio su tale OS, ribattezzato BBX per l'occasione: un sistema pensato per il mondo touch e con concetti di interazione innovativi.
      L'interfaccia studiata, infatti, faceva dell'uso dei gesti la sua arma principale e tutta la UI era stata completamente rinnovata rispetto al classico sistema BlackBerry, nonostante ne riproponesse tutte le peculiarità.

      Ci vollero più di due anni affinché il nuovo BlackBerry 10, sistema operativo nato da QNX/BBX, fosse pronto per arrivare anche sugli smart-phone dell'azienda. Nel 2012 l'allora appena promosso CEO mostrò al mondo la nuova incarnazione del sistema e nel 2013 i primi modelli arrivarono sul mercato, assieme al cambio del nome: niente più RIM, solo BlackBerry.



      La nuova interfaccia del sistema operativo faceva grande uso delle gestures: gli swipe dai vari bordi avevano funzioni differenti. Lo swipe dal bordo in basso verso il centro permetteva di sbloccare il telefono o tornare alla home (mettendo in background l'applicazione in uso); lo swipe dal bordo superiore permetteva di mostrare la tendina con le opzioni rapide, o il menu secondario della applicazione correntemente in uso; lo swipe dai bordi, a seconda dell'app, permetteva di mostrare menu con azioni.

      Ma la funzione più comoda di tutte era sempre a portata di dito: disegnando una L rovesciata partendo con uno swipe dal bordo inferiore si accedeva all'Hub, il centro di tutte le notifiche e di tutti i messaggi/email e quant'altro ricevuti, tutti aggregati e pronti all'uso.


      Sono passati più di due anni dalla presentazione e la piattaforma ha ricevuto 3 aggiornamenti corposi che ne hanno aumentato le funzionalità e affinato alcuni aspetti grafici, pur mantenendo i concetti base di UX via gestures e UI.
      Il sistema è stato pensato fin da subito per essere ricco di scorciatoie per eseguire task, avviare operazioni e raggiungere l'obiettivo il prima possibile.

      Si nota fin dal primo momento che l'OS nasce dalle mani di chi ha sempre lavorato per il mondo business, per chi ha poco tempo da dedicare al consumo di contenuti e molto più per la creazione degli stessi.


      Per questo motivo l'OS è in grado di scalare senza difficoltà per dispositivi con differenti formati, con o senza tastiera fisica e con dimensioni e risoluzioni differenti dello schermo.
      BlackBerry è l'unica azienda a produrre dispositivi dotati di questo OS, visto che non ne ha mai concesso licenza a produttori terzi, e perciò, esattamente come Apple, essa è in grado di guidare al 100% l'avanzamento dell'ecosistema sia lato hardware che software.



      Esattamente come per Windows, però, anche BlackBerry rimasta legata ad una piccola nicchia del mercato (leggasi pochi utenti) aveva (ed ha tuttora) problemi di scarsità di applicazioni.

      BlackBerry aveva già intrapreso una possibile soluzione al problema, fin dalle primissime incarnazioni del suo BBX: si era creato un layer al di sopra dell'OS che permettesse di eseguire applicazioni Android già compilate (quindi gli apk). Questa soluzione, a differenza di quella più fine di Microsoft, non prevede alcuna mappatura di API.

      L'allora RIM tirò su un sistema di certificazione delle applicazioni scritte per il robottino verde, in modo che -con un controllo preventivo- fosse possibile capire se effettivamente l'app in questione potesse funzionare correttamente o meno sul proprio OS.
      Dalla versione 10.2, poi, BlackBerry ha stretto un accordo con Amazon che le ha permesso di preinstallare lo store Amazon apps direttamente nel sistema operativo, così da dare una doppia scelta rapida all'utente tra il proprio store (con le app scritte appositamente per BlackBerry 10) ed un secondo punto di raccolta di titoli molto più blasonati (ma scritti per Android).


      L'esecuzione di applicazioni pensate per un'altra piattaforma può cozzare completamente con la UI dell'OS. Ma questo è sicuramente solo un problema -forse- secondario e lato interfaccia, se si pensa che anche lato interazione e lato prestazioni non si fa molto meglio.

      Ad ogni modo, questa è stata l'arma scelta per cercare di attrarre sviluppatori sul proprio ecosistema, arma a doppio taglio ovviamente: non sono del tutto sicuro che dare la possibilità di non cambiare una sola riga di codice, e quindi inibire l'accesso ad API dedicate e funzioni esclusive dell'OS, sia un buon modo per attirare developers di terze parti.
      Stesso dubbio che permane, però, anche nella soluzione costruita da Microsoft.


      Per ora non ha funzionato, tant'è che BlackBerry sta spostando il suo business da applicazioni e prodotti a servizi sul cloud. Esattamente come Microsoft, anche qui l'azienda canadese sta portando i suoi principali servizi (BBM, BES, etc...) sulle piattaforme della concorrenza più diffuse.

      BlackBerry 10 è un sistema ottimo per le aziende a cui può dare strumenti votati alla produttività spinta. Ma è nato e cresciuto in un mondo che si è allontanato pian pianino dagli schemi del produttore canadese (il mondo business) o che non lo ha mai abbracciato veramente (il mondo consumer).


      Firefox OS (open-web in mobilità), Sailfish (outsider per eccellenza), Tizen (ma perché?) ed Ubuntu (convergenza a puntate)




      Al di là dei soliti nomi famosi nel mondo della tecnologia, magari già presenti nel mondo mobile da diversi anni, oppure dei grandi player che da soli fatturano annualmente più del PIL di intere nazioni, ci sono piccole (o anche grandi) realtà che stanno cercando di dire la loro.

      Nel corso dell'ultimo anno mi è capitato di parlarvene spesso perché hanno attirato la mia curiosità (in positivo ed in negativo), e nonostante siano nuovi attori sul mercato -di cui alcuni letteralmente da pochi mesi in gioco- mi sembrava giusto quanto meno nominarli.

      Chi per un motivo chi per un altro, Mozilla, Jolla, Samsung/Intel e Canonical hanno optato per gettarsi nella mischia e mostrare al mondo intero che nonostante il duopolio Google-Apple qualche spazio sul mercato (forse) ancora c'è.


      Firefox OS (recensione) è il sistema operativo, tra i quattro qui sopra rappresentati dai rispettivi loghi, arrivato per primo sul mercato: era la fine del 2013. Subito dopo è stata la volta di Sailfish (recensione) (fine 2013 - inizio 2014), e solo negli ultimi mesi sono apparsi i primi dispositivi dotati di Tizen (fine 2014) ed Ubuntu Touch (recensione) (Q2 2015).


      Questi OS sono più o meno tutti accomunati da tre aspetti principali:
      1. gioventù (scarsità di apps, possibili incoerenze di UI/UX o mancanza di funzioni)
      2. peculiarità (metodi di interazione, nuovi concetti di accesso alle informazioni o contenuti)
      3. user base (nicchie di fan incalliti, nuove metodologie di brand)


      Per quanto riguarda il primo punto, la quantità di applicazioni compatibili è legata sia al numero di mesi di presenza sul mercato (Firefox OS c'è da più tempo ed ha più apps sullo store, Ubuntu è l'ultimo arrivato e ne ha meno), sia dalle tecniche scelte per affrontare il problema.


      Mozilla aveva come obiettivo quello di portare l'open-web sul mobile e quindi ha trovato il modo di integrare il web con lo smart-phone: questo è coinciso con la creazione di un sistema in grado di funzionare attraverso le tecnologie standard che muovono Internet (HTML5/CSS/JavaScript) e allo stesso tempo di far interagire le web-app direttamente con il nostro telefono.
      Questa scelta ha favorito l'avvicinamento di tantissimi developers che da anni ormai sviluppano sul web e allo stesso tempo permette la creazione in breve tempo di apps.

      Di contro la piattaforma è decisamente ancora povera di API, di funzioni avanzate ma anche solo di coerenza generale. Allo stesso tempo è già in grado di muovere dispositivi di diversa natura, come smart-phone e tablet, ma anche TV o dongle multimediali.


      Jolla ha pensato ad un approccio completamente differente. Sicuri del lavoro svolto in Nokia sulla piattaforma MeeGo, molti dei ragazzi coinvolti nel vecchio progetto hanno portato tutte le loro idee di interazione sul nuovo OS, Sailfish, che fa della sua diversità la propria arma.
      Non solo: per cercare di ritagliarsi un buon numero di utenti, si è fatto in modo di far eseguire applicazioni scritte per Android as-is, anche qui senza modifiche al codice sorgente e premiandole addirittura con la pubblicazione all'interno dello store ufficiale.

      La soluzione proposta da Jolla è identica a quella di BlackBerry (senza però alcun servizio di verifica compatibilità), e anche con accordi con altri store di applicazioni per il robottino verde. A differenza della piattaforma di BlackBerry, però, le app Android girano davvero bene. Anche se lato UI e UX l'integrazione è inesistente, e anzi il sistema simula addirittura la barra dei comandi di Android affinché sia possibile interagire correttamente con le suddette apps.

      Anche in questo caso, la scelta di integrare applicazioni scritte per altri OS può andare contro gli interessi stessi della piattaforma, rallentando lo sviluppo di API o funzioni specifiche (ambience, gestures, e così via...).


      Samsung è ripartita da MeeGo, ma a differenza di quanto fatto da Jolla, ha unito quel progetto con il proprio sistema operativo proprietario Bada (e con i resti di LiMo).
      Dall'unione di questi mondi è nato Tizen, un sistema operativo open-source in grado di adattarsi a dispositivi completamente differenti (non solo tablet e smart-phone, ma anche TV, smart-watch, IoT e sistemi di car-infotainment).
      La potenza di Tizen è sicuramente la sua malleabilità e capacità di muovere dispositivi così eterogenei.

      Il problema è la gestione che ne sta facendo la casa sudcoreana: non si capisce esattamente dove voglia andare a parare. Al momento ne è decisamente chiaro l'utilizzo nel mondo dei televisori e degli orologi intelligenti. Esiste poi un telefono, lo Z1, un terminale di fascia bassa che è mosso da tale OS, ma la sua commercializzazione è per ora limitata ad alcuni mercati emergenti.

      Sembrava dovesse essere un arma con cui Samsung potesse andare a differenziare la propria offerta rispetto agli altri produttori, e cercare di slegare il proprio business da quello di Google. Ma al momento questa carta sembra essere rimasta nel mazzo, pronta ad essere perfezionata ed eventualmente tirata fuori all'occorrenza.

      Ad ogni modo anche su Tizen è possibile avviare applicazioni scritte per il mondo Android, tramite un layer di compatibilità simile a quello di Jolla e di BlackBerry (con gli stessi problemi del caso, anche se limati dall'uso di una UI ed una UX decisamente simili a quelle del robottino verde).


      Infine Canonical, famosa per la sua distribuzione GNU/Linux per Personal Computer e Server, ha cominciato a sognare un futuro in cui non fosse più importante il dispositivo in uso, ma solamente il tipo di interazione con lo stesso (tramite touch, tramite periferiche esterne, etc).
      Un unico dispositivo in grado di eseguire applicazioni capaci di adattarsi automaticamente alla periferica di output utilizzata (schermo del display piuttosto che monitor esterno), non solo lato UI ma anche lato UX: una convergenza totale.

      Lo sviluppo di quest'idea ha impiegato diversi anni e ancora oggi non è stata completata, ma un passo per volta si sta arrivando all'unificazione di UI e UX tra mondo mobile, desktop e, a livello di core, anche con quello dell'IoT. Ogni distribuzione che viene rilasciata segna una tappa verso quell'agognata convergenza che un giorno rivoluzionerà completamente il nostro modo di approcciarci alla tecnologia che ci circonda.

      L'incarnazione mobile di Ubuntu, nello specifico, cerca di rivoluzionare anche il concetto di accesso alle informazioni, spostando i contenuti fuori dalle app e mostrandoli direttamente all'utente grazie agli scopes. Una sorta di finestre aggregate o specifiche su argomenti di interesse per l'utente.
      Con la stessa tecnica si cerca anche di attrarre gli sviluppatori fornendo loro un sistema rapido per portare i propri contenuti e servizi, senza la necessità di andare a creare applicazioni complete da zero.



      Per quel che riguarda il secondo punto (le peculiarità), ognuno di questi quattro sistemi operativi ha le proprie peculiarità, già descritte più e più volte.

      In questo caso, però, tra tutti quello che spicca maggiormente è Sailfish che fa grande sfoggio della sua eleganza e coerenza generale. Non solo la UI è particolare, ma la stessa interazione con l'OS prevede l'uso di gestures studiate per rendere la UX agevole anche con una sola mano.

      Questo grande punto di forza permetterà in futuro all'OS di adattarsi senza problemi a dimensioni differenti degli schermi (al momento c'è un solo device al mondo dotato di questo sistema operativo).

      Altra caratteristica è l'attenzione alla sicurezza: Jolla sta puntando davvero tanto su questo aspetto, tant'è che la Russia ha deciso di seguire e finanziare il progetto (che continuerà ad essere unico a livello mondiale) per slegarsi dal dominio americano nel campo mobile (nella morsa del duopolio Android-iOS), con tutti gli ultimi scandali trapelati legati ad NSA e privacy degli utenti.


      Ubuntu ha seguito una strategia simile a quella di Jolla, ma non così estrema: la UI riprende molti aspetti grafici noti all'utente, ma a questi aggiunge una UX ricercata e anche qui legata fortemente all'uso di gesti sullo schermo. Di gesti ce ne sono davvero tanti, a volte poco intuitivi.

      Oltre a condividere l'uso dei gesti, la soluzione pensata da Canonical (derivando da una distro-Linux) ha in comune con Sailfish la possibilità di avere accesso alla shell, e di essere un OS completamente aperto per gli smanettoni.


      FirefoxOS e Tizen sono gli OS su cui i rispettivi produttori hanno azzardato di meno: UI e UX ricordano sotto tutti i punti di vista (colori, icone, metodi di interazione, barre di stato, gestione notifiche e quant'altro) sistemi ben più blasonati come iOS ed Android.

      Tra i due, Mozilla è quella che ha osato qualcosa in più introducendo qualche gesture e qualche funzione particolare come l'Adaptive Search e le Smart Collection. Di Tizen al momento si fa fatica a capirne l'esistenza in ambito mobile, se non come clone di Android.



      L'ultimo punto riguarda gli utenti: sono quattro piattaforme sconosciute (o quasi) alla massa e decisamente giovani. Ma ognuna di esse può contare su alcuni punti ben saldi.

      Jolla ha fatto di tutto per far chiacchierare di sé e per attirare l'attenzione sul suo OS: stiamo parlando di una start-up di poco più di 100 persone che in 3 anni è riuscita a creare un sistema operativo ed una rete di partner attorno al proprio ecosistema. Jolla ha puntato tutto sull'e-commerce e su contratti esclusivi con alcuni carrier telefonici o reti di distribuzione in mercati locali.
      Decisamente attiva sui social network e blog, ha indetto campagne di crowd-funding per finanziare i propri progetti, ha realizzato accessori ufficiali e attirato produttori di terze parti sui suoi dispositivi.
      Ha perfino creato un launcher per Android, Stella Launcher in partnership con Rovio, per mostrare il funzionamento del suo OS ad un pubblico decisamente vasto; senza dimenticarci del progetto di porting di Sailfish via custom ROM su tantissimi dispositivi Android, ed infine tutto il mondo delle TOH.

      Sailfish è open-source con qualche componente chiusa sopra il core principale, ed al momento non è ancora stato reso disponibile per altri produttori. Dalla versione 2.0 sarà licenziato ad OEM e nuovi dispositivi arriveranno sul mercato.


      Mozilla ha puntato a tutt'altra utenza, quella della fascia bassa, quella di chi si avvicina per la prima volta al mondo degli smart-phone e quella di chi non vuole spendere tanto per (o non può permettersi) un cellulare costoso. Insomma esattamente il target descritto ad inizio articolo.
      Mozilla, come ente no-profit, non è in grado di produrre dispositivi ma rilascia gratuitamente il software sviluppato per i vari partner del progetto: ad oggi Firefox OS è presente in tanti mercati, principalmente quelli emergenti con diversi dispositivi, tutti decisamente economici.
      Può inoltre contare sulla partnership di Teléfonica che è un carrier potente e comunque Mozilla è un nome importante a livello globale.

      Firefox OS è completamente open-source, gratuito e costruito attorno a tecnologie standard ed open. I produttori di terze parti possono accedere e modificare il codice sorgente e gli aggiornamenti sono demandati a loro (il che finora ha causato frammentazione).


      Canonical ha dalla sua la fama di distro-Linux più usata al mondo, con una community decisamente attiva che la supporta. Ha un piano di convergenza di tutte le sue tecnologie, e anche lei, come Jolla, ha finora puntato all'e-commerce per la vendita dei dispositivi. A differenza della start-up finlandese, però, ed egualmente alla strategia intrapresa da Mozilla, l'azienda inglese non ha provveduto in prima persona alla produzione di device, ma si è affidata a partner già specializzati nel campo mobile (BQ per l'Europa e Meizu per la Cina).

      Ubuntu Touch è ovviamente open-source, gratuito e fornito in licenza ai vari OEM che possono personalizzare parte del layer sovrastante il core, in modo da rendere gli aggiornamenti della piattaforma slegati dai servizi aggiuntivi. Gli aggiornamenti sono infatti controllati direttamente da Canonical, così da evitare lo spauracchio della frammentazione.


      Infine Samsung, per il suo Tizen, può far leva sul proprio nome e sulle proprie immense risorse per (se necessario) sponsorizzare tutto il lavoro svolto.
      Il fatto di avere una UI (almeno lato smart-phone) decisamente familiare con l'esperienza del sistema operativo più diffuso al mondo (Android) -in cui Samsung stessa la fa da padrona-, e la capacità di eseguirne le applicazioni, potrà permetterne una diffusione rapida tra i meno addetti che potrebbero non essere in grado di distinguerne le differenze (ci sono i widget, la UI è la stessa dei vari Galaxy, e ci sono anche i tre tasti fisici indietro, home, menu...).

      Il sistema operativo è open-source, utilizzato in varie forme in tanti prodotti differenti, ma ha un sistema di licenze decisamente complesso (per via delle origini miste da cui deriva).
      Al momento non vi è nessun altro produttore noto che lo utilizzi oltre al colosso sudcoreano.



      Bene, queste erano le piattaforme ad oggi più famose e attualmente attive sul mercato.

      Tantissimi OS sono nati, vissuti e morti dall'inizio del nuovo millennio: ho citato Bada e MeeGo, ma fino a qualche tempo fa Symbian la faceva da padrone per lo meno in Europa. C'è stato LiMo, anch'esso assorbito in Tizen, ed una marea di tanti altri progetti secondari.

      WebOS, che da noi è arrivato solo di striscio, sta vivendo una nuova vita dopo l'acquisizione di LG, come piattaforma per device wearable e TV.
      E non è chiaro se l'azienda sudcoreana sia intenzionata ad estenderne l'uso in altri ambiti.

      Altri player scenderanno in campo nei prossimi anni, come Tencent (il colosso cinese alle spalle del fenomeno WeChat, di QQ ed una marea di altri servizi B2B e consumer), che ha proposto un OS per dispositivi wearable e per l'IoT.


      Insomma il fenomeno phablets è solo il punto di arrivo delle richieste degli utenti di dispositivi in grado di accorpare in un unico hub tutto il mondo digitale. Mondo che, tramite wearable e l'IoT, sarà ulteriormente allargato (o per lo meno questa è la scommessa che stanno facendo i produttori).


      E voi che ne pensate? C'è spazio per così tanti player?
      Si riuscirà veramente ad unire in un unico punto centralizzato il controllo di tutto il mondo digitale che ci circonda?

      Vi aspetto nei commenti :-)


      A presto e alla prossima!